Nazioni Unite. La neonata Commissione continua a suscitare polemiche. Questa volta sotto accusa è il delegato dell'Iran, Said Mortazavi
Marzia Bonacci
Il caso. Non è un debutto facile quello della neonata Commissione per i diritti umani, in questi giorni riunitasi per la prima sessione di lavoro a Ginevra. Il nuovo organismo, infatti, continua ad essere bersaglio delle diverse critiche internazionali, le quali muovono dubbi riguardo alla partecipazione nel Consiglio di paesi che sul fronte del diritto umano non possono vantare un consistente grado di avanzamento. E se questa corrente critica è destinata ad alimentare il grande mare di proteste che accompagneranno, molto probabilmente, la Commissione durante tutto il suo operato, una nuova polemica è destinata a crescere a cornice del summit ginevrino. Oggetto della recriminazione, questa volta, è la partecipazione al vertice in corso nella città elvetica del tanto discusso magistrato iraniano Said Mortazavi. La presenza di Mortazavi, stando ad una nota critica firmata dalla “Federazione Internazionale per i Diritti dell’Uomo” (Fidh), deve essere letta come “un’offesa alla dignità degli organismi internazionali che chiedono il rispetto dei diritti umani” proprio lui che può essere considerato a pieno titolo, secondo Reza Moni, responsabile per l’Iran dell’associazione “Reporters sans Frontieres”, uno “fra i più grandi nemici della libertà di stampa nel mondo”. Una presenza che il vicepresidente dell’“Associazione Sindacale dei Giornalisti Iraniani”, Mashaollah Shamsolvaezin, stigmatizza nei termini “di uno sgarbo della Repubblica Islamica alla comunità internazionale”, “una sfida lanciata dal governo di Mahmoud Ahmadinejad alle Nazioni Unite”. Insomma, un nuova tappa strategica del complicato dialogo fra Teheran e mondo occidentale intorno al caso dell’uranio.
Il personaggio. Ma chi è questo signor Said Mozavi che oggi siede come numero due della delegazione iraniana fra i partecipanti alla conferenza della Commissione per i Diritti Umani? E perchè la sua persona è al centro del fuoco incrociato ingaggiato – per altro legittimamente – dalle organizzazioni internazionali e del suo paese impegnate nella tutela della libertà di informazione e della dignità dell’essere umano?
Il suo curriculum apparentemente può non destare scandalo, Mozavi è infatti Procuratore Generale a Teheran. Se non fosse che la sua attività di “uomo della legge e dell’ordine” si è a lungo e profondamente concentrata a limitare la libertà di stampa iraniana, dando vita ad una serie di operazioni repressive che ultimamente, per esempio, hanno portato all’arresto di un vignettista sottoaccusa per aver pubblicato un disegno che “insultava i compatrioti azeri”. Sei anni di impegno nella magistratura che hanno aperto le porte del carcere a più di un centinaio di giornalisti della Repubblica Islamica e alla chiusura di oltre 200 giornali e riviste.
Ma l’aspetto più oscuro della sua carriera riguarda la triste vicenda della fotoreporter canado-iraniana Zahra Kazemi, morta nel luglio del 2003 a pochi giorni dal suo arresto in Iran. Ebbene, sono in molti a individuare nel procuratore Mortazavi il responsabile di quella uccisione, che ancora oggi non ha visto ufficialmente nessuna condanna.
La vicenda. La tragica storia di Zahra ha inizio il 20 giugno del 2003, quando la reporter, che all’epoca aveva 54 anni e che pur essendo nata nell’ex Persia si era trasferita in Canada dove aveva ottenuto la cittadinanza, arriva nel paese della “rivoluzione khomeinista” come inviata dell’agenzia britannica Camera Press per assistere alla manifestazione dei dissidenti del regime: studenti, lavoratori e gente comune scesi nelle piazze per chiedere al governo l’inversione politica in direzione di una vera democrazia. Appena giunta a Teheran, Zahra si rivolge all’Ershad, il ministero della Cultura e responsabile per il rilascio dei permessi di lavoro alla stampa internazionale, dal quale ottiene il tesserino e l’autorizzazione a lavorare. Il 23 giugno è davanti il carcere di Evin – definito dal rapporto Onu del 2003 sulle condizioni di detenzione iraniane “una prigione nella prigione” - per raccogliere e fotografare le denunce e la protesta dei tanti parenti e amici che hanno visto, e purtroppo vedono ancora oggi, i loro cari finire nella morsa carceraria nazionale. Nella maggior parte dei casi si tratta di giornalisti che si sono spinti troppo in là nella ricerca della verità, di intellettuali scomodi perchè incamminatisi sul sentiero del “libero pensiero” o anche gente comune assetata di democrazia. Spesso poi sono giovani ragazzi desaparecidos nelle patrie galere di cui si ignora la fine: sono morti o sono vivi, è la domanda che si pongono e che affligge i loro familiari. Di questo era venuta a raccontare attraverso le sue istantanee Zahra Kazemi e questo ha pagato al regime di Teheran. Quello stesso giorno davanti al carcere di Evin, la reporter canado-iraniana è stata infatti arrestata con l’accusa di spionaggio. Tre giorni dopo, il 27 giugno, è ricoverata in gravissime condizioni all’ospedale Baghiatollah della capitale. Qui si spegne ufficialmente il 10 luglio, dopo un breve coma. La prima dichiarazione parla di morte per ictus o infarto, comunque per cause naturali. Ma la famiglia di Zahra non è convinta e comincia la sua battaglia per la verità. Il figlio dal Canada ne chiede la restituzione della salma per praticare l’autopsia e per seppellirla nello stato in cui, per più di 25 anni, la madre ha vissuto, ma le autorità iraniane dicono no e procedono velocemente alla sua sepoltura, giustificandosi così: “per noi era cittadina iraniana e valgono le leggi del nostro paese”. Nel frattempo i gruppi riformisti chiedono l’approvazione di una commissione di inchiesta che nasce con il placet di Khatami e che ribalta la versione iniziale sostenuta dalle autorità: la reporter è morta per una emorragia cerebrale causata dalle percosse subite durante la detenzione e generatasi da un trauma cranico. Un giudizio che mette con le spalle al muro il governo, ma che non porterà a nessuna verità effettiva: chi ha picchiato e violentato Zahra – il medico che per primo la ha soccorsa e che è attualmente in esilio politico in Canada, Shahram A’zam, ha infatti dichiarato che la donna aveva patito anche la violenza sessuale – non è stato mai individuato.
Secondo “Reporters sans Frontieres” responsabile della morte della giornalista sarebbe proprio quel Said Mozavi che oggi rappresenta Teheran alla conferenza della Commissione per i diritti umani, il quale prese parte personalmente al suo interrogatorio nei giorni in cui era detenuta a Evin. Ma la giustizia iraniana il 22 settembre ha provveduto a scagionare qualsiasi personaggio legato alle istituzioni di stato, così Mozavi è stato formalmente tirato fuori dalla torbida vicenda e al suo posto si è proceduto ad incriminare, come capro espiatorio, un agente dei servizi segreti, il quale anche lui è stato successivamente scagionato per insufficienza di prove. Il miglior commento sul processo e sull’atteggiamento delle autorità iraniane, che per altro portò ad una frattura nel rapporto con il governo canadese perchè l’Iran impedì la presenza di delegati nordamericani alle udienze, è stato quello dell’avvocato che ha sostenuto la famiglia Kazemi, Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace. E’ stata infatti lei a dichiarare a margine del processo: “I veri colpevoli sono da ricercare tra le guardie del carcere di Evin, al servizio della magistratura” e non dunque in quel capro espiatorio presentato alla sbarra e “immolato” dal regime iraniano per salvare nomi eccellenti e a suo servizio, come il Procuratore Mozavi.
Il Vaticano. Anche il ministro degli Esteri pontificio, monsignor Giovanni Lajolo, ha esposto le perplessità della Santa Sede sulla Commissione Onu. Durante il suo intervento di martedì a Ginevra, anche se senza mai citare apertamente Cuba, Cina, Arabia Saudita, Algeria, Pakistan e Russia, il delegato papale ha dichiarato: “La visione panoramica del mondo mostra che la situazione dei diritti umani è preoccupante. Se si considerano l’insieme dei diritti enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e nei Tratti internazionali riguardanti i diritti economici, sociali e culturali, non esiste un solo diritto che non sia violato nei paesi, sfortunatamente anche in quelli che compongono il nuovo Consiglio”. Una dichiarazione che fa eco a quella della settimana scorsa, quando monsignor Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente a Ginevra, si è riferito alla Commissione come di un organismo nato “con luci e ombre”. Dove le ombre, è stato chiaro Tomasi, sono riconducibili a “Cina, Cuba e Arabia Saudita, più volte criticati dalle organizzazioni di diritti umani”.
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